7 / 10
L'album Year After Year (Quigley, 1993), destinato a rimanere il loro capolavoro, e` caratterizzato da testi iper-realisti che fotografano scene di tutti i giorni, apparentemente di nessun interesse, in realta' metafore per la disperata alienazione nella metropoli. I salmi degli Idaho, propulsi da accordi che sono lividi, da ritmi che sono bubboni, incorrono in continue allucinazioni (Gone, gli ultimi momenti di un morente), soffocano in claustrofobie timbriche (The Only Road), lambiscono depressioni suicide (Sundown), precipitano in abissi di assoluta anemia (God's Green Earth). Gli ultimi cinque minuti della lunga End Game sono di puro silenzio. Sono odi alla marginalita' sociale, e non a caso talvolta (Memorial Day) si situano al confine con le elegie piu' sommesse di Lou Reed. Non esiste redenzione in questo mondo di sole sconfitte, ma una qualche forma di serenita' o rassegnazione viene adombrata in Save.
Martin e Berry sono poeti dell'effimero, delle chimere, della dissolvenza, del vuoto, del nulla, del riflesso di un fantasma nella nebbia dell'aurora. La loro musica, compressa fra "gloom" e "doom", fra Neil Young e Nick Drake, non esiste.
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